occhio di bue # 6




Immagina gli occhi di un gatto. Le pupille sono fosforescenti, immobili, fisse su di te. Non hanno scatti o tentennamenti, nessun giudizio. Ti fissano e basta. Diamanti liquidi che baluginano dal fondo di una stanza lunghissima, quasi un tunnel buio o quasi, se non fosse per un faro solitario che vomita la sua luce netta, e sparpaglia miriadi di riflessi sul parquet, tra tende nere, materassini da ginnastica, quinte mobili, e le Nike di un tipo rintanato in fondo alla stanza, cogli occhi da gatto.
Silenzio religioso, pesante. Ora il ticchettìo del faro da teatro, in temperatura, a mischiarsi col ronzio del traffico, lontanissimo, della città. I clacson, le scintille di un tram. Una sera come le altre, a Milano, all’ora del rientro a casa.


Dall’altro capo della stanza, dirimpetto a quegli occhi spalancati, enormi, le cui palpebre si ritirano nella cavità oculare a dilatare i bulbi – ora sono biglie bianche - c’è un tavolo.
Dietro al tavolo, tre persone, che bisbiglino tra loro.
Non sembrano interessati al tipo in fondo alla stanza, che continua a fissarli. Anzi, una di loro sbadiglia e dopo un po’ sibila qualcosa. Si copre con la mano. Ride. È una donna anziana, caschetto alla francese, argenteo, simile a un casco; gli occhiali spessi, abbassati sul naso minuscolo; la vecchia che le siede accanto, - una mummia decrepita, truccatissima - accenna un sorriso sul viso di cartavelina; spalanca la bocca sbavata di rossetto, e gratta via con l’unghia un filo di tabacco dall’incisivo scuro. Poi fa un cenno. Per lei si può cominciare.
Vada. – dice infine la terza persona dietro al tavolo. Un uomo grasso, spaparanzato sulla sedia, visibilmente annoiato. – Vada, su.
Il tipo in fondo alla stanza ha un sussulto, come a dire “ok dice a me”. Tremano, i suoi occhi luccicanti. Da gatto, sì, ma quella fissità, insomma nessuno scarto, incertezza, quasi un’allucinazione marcata a fuoco sulla retina; dubbi e realtà, sbriciolate; discussioni interiori, repliche: nulla in quegli occhi, se non cenere e vuoto. Poi un’idea. Perfetta, fosforescente, montata sul corpo atletico del tipo in fondo alla stanza, che ora gonfia i muscoli.

Mette il piede sinistro davanti al destro. Ruota la pianta come a calcare la terra, alimentare la presa. Espira tutto il fiato, anzi no: rilassa la mandibola fino a formare una “O” sulle labbra, un cerchio perfetto, come un’espressione di meraviglia davanti alla divinità, alla Luce, a Dio. Vuole sorridere, ma non riesce, perchè sente lo stomaco borbottare, sollevarsi, decollare verso l’esofago. Lo stomaco che si schianta e rimbalza indietro, ed ettolitri di reflussi gastroesofagei a squassarsi in tempesta, onde gastriche, gorghi fumanti, bile acida che si agitano nelle viscere; un bolo di cibo semidigerito, una zattera corrosa – ovvero il panino al salame, che il tipo si è sforzato di ingoiare prima di presentarsi al provino – che impazza qua e là, sommerso, rovesciato nel magma digestivo. Ecco, un tuono nello stomaco. Saette, fulmini. Kilowatt di angoscia, che attorcigliano le viscere e strozzano, e un rutto risale, arrampica, va su nella gola, e il tipo non resiste e urla. Anzi, rutta e poi urla, come l’avessero accoltellato alla schiena, e ora con la mano tenta di togliersi il pugnale. Via, via. Il movimento è quello, identico.
Dall’altro capo della stanza, le due vecchie e il grassone osservano la scena, terrorizzati.
D’altronde c’è questo tipo, - un ragazzo di 21 anni, genovese, che si è presentato alla seconda selezione per entrare alla scuola di teatro del Piccolo Teatro di Milano, uno fra settecento aspiranti allievi attori, uno qualunque che alla prima selezione aveva recitato un pezzo tratto da “Il Piccolo Principe”, e aveva uno sguardo così tenero da orsacchiotto scemo, ma tenerissimo – che ora si sta precipitando contro di loro a velocità folle, e urla come un berserker, il braccio destro ritirato all’indietro come a estrarre il pugnale conficcato nelle scapole, oppure – all’idea i tre, di colpo si ritraggono, annaspano – il braccio pronto a colpirli, massacrarli, squartarli; e i tre vorrebbero scappare ma ormai il tipo è a cinque metri, quattro, tre, due, e non comprendono, gli avevano chiesto di simulare il lancio di un sasso, ERA SOLO LA PROVA DI MIMO LANCIARE UN SASSO e ora c’è questo pazzo, berserker scatenato, di certo drogato, ubriaco, allucinato, che ci vuole uccidere, ma ormai è tardi, il colpo è partito, l’impulso errompe in movimento, rotazione della spalla di 180 gradi, allungamento del bicipite, braccio in piena estensione, mano che si apre a far decollare il SASSO IMMAGINARIO che il tipo è convinto di lanciare, per lui nessuna differenza tra realtà e finzione, metodo Stanislavki riveduto e corretto in salsa genovese, totale immedesimazione in bestie, motorini, bottiglie, qualsiasi cosa per amore del teatro o quello che è, e il corpo del tipo che segue il lancio e decolla e fluttua anch’esso – reale, però - insieme al SASSO IMMAGINARIO e vola vola vola volano insieme sul tavolo della commissione d’esame e il SASSO IMMAGINARIO evapora mentre il corpo concreto, pesante, frana sulle due vecchie e il panzone una volta schierati in stile Flashdance e ora tutti insieme in una esplosione di vertebre, terrorizzati , a terra, sul parquet, ansimanti, col tipo genovese che rotola e urla SCUSI SCUSI SCUSI SCUSI per l’aver calcolato male le distanze, ma nessun dubbio in merito – a distanza di vent’anni, lo confermo – della sua abilità a lanciare SASSI IMMAGINARI.

Ho passato il provino.





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