occhio di bue # 7

Penultima, ultima, the end. Finita. Autobiografia di Marlon Brando. Trecentocinquanta pagine di carta riciclata, e manco un accenno ai suoi problemi di obesità, ma chissene. Appoggiai il tomo al petto, stringendolo forte come un figlio bambino - pucci pucci! - e subito non potevo resistere e le pagine frusciavano indietro in un tourbillon d’emozioni: ecco il momento in cui il Selvaggio raccontava dei suoi primi passi nel Metodo Stanislavski. Dovevo rileggerle. New York fine anni ’40, Time Square, stivaletti, pettorali, t-shirt strappate. Virilità. Bestemmie maledizioni sputazze a quel vampiro di Lee Strasberg, che si era intestato la paternità del Metodo, lurido bastardo! Fuck you! E infine la vera benefattrice, eccola, Stella Adler. Lei mi ha insegnato tutto, dice Marlon. Una donna bellissima, biondissima, poco più grande di me, dice Marlon. La mia benefattrice. Qualche volta, dice Marlon, avevo l’impressione che mi volesse sedurre, che tra un esercizio e l’altro la sua mano ispezionasse la mia T-shirt sudata con eccessiva dovizia. Insomma mi palpava i pettorali, la mia Stella. D’altronde, dice Marlon, avevamo intessuto uno strano rapporto insegnante-allievo. Una specie di gioco erotico, mai consumato.
In vita mia ho sempre avuto poche idee totalmente confuse, che però ho perseguito con una tenacia al limite della demenza. Dall’età di quattro anni, alla domanda cosa vuoi fare da grande ho risposto in serie: paleontologo, campione di corsa, prestigiatore, attore, scrittore, vittima di un rapimento alieno, testimone di un fenomeno poltergeist, poltergeist, ventriloquo. (adesso, ventriloquo: sono la disperazione dei miei genitori). I libri, poi, mi hanno rovinato. A venti anni, in seguito a quella lettura sciagurata, mi ero convinto che il primo passo per conquistare il teatro italiano – anzi, l’intero Universo - fosse quello di iscrivermi a una scuola di teatro amatoriale per replicare le gesta del Selvaggio; ovvero trovare anch’io una Stella Adler che mi iniziasse agli arcani segreti della recitazione, e con la quale avrei intessuto la trama di un pelosissimo gioco erotico non consumato e morboso. Nella sua idiozia il piano era perfetto.

Dopo le prime deludenti esperienze (vedi occhio di bue 2), il destino mi venne incontro. Il manifesto in caratteri gotici, appeso alla vetrina di un supermarket, parlava chiaro: “Trovarsi”, scuola di teatro diretta da Stella Adler. Rilessi: Gea Sandri. Sì, Gea Sandri. Non Stella Adler: Gea Sandri. Cominciavano le allucinazioni... Immediatamente scoprii che “Trovarsi” era un’opera di Pirandello, infatti c’era il suo pizzetto luciferino sul manifesto. Mi precipitai alla biblioteca Berio, sventolando il tesserino – Faccia presto, signorina, questione di vita o di morte! - E leggevo e leggevo, e leggevo e piangevo. “Trovarsi”, ovvero la storia di una grande attrice che non riesce più a distinguere sè stessa dai suoi personaggi, perdendosi nelle molteplici identità dell’io. Vogliamo parlare del monologo del camerino, in cui lei, alla fine di ogni replica, riflettendosi nello specchio, racconta di smarrirsi e balbettare - Chi sono IO? Chi sono IO davvero? – E poi si appende a una tenda e sviene? In realtà, pagina dopo pagina, la trama si faceva confusa: lei che s’innamora di un marinaio svedese alto due metri, platinato, pettorali sudati, che odia il teatro perchè sì.
Tornai a casa, lentamente. Caracollavo qua e là, mischiandomi nella folla. Grondavo pioggia, e non m’importava, sul finire di quel grigio pomeriggio d’autunno. Quante volte mi sarebbe successo ancora...Ricordo che disteso sul letto osservavo il soffitto, e ancora non battevo ciglia, fino a che mi soffermai sugli strani ghirigori di fumo azzurro che, a quanto pareva, uscivano dalle mie orecchie. Capii: mi era esploso il cervello. E quindi dovevo iscrivermi alla scuola di teatro di Stella Alder. NO, GEA SANDRI! GEA SANDRI!

Qualsiasi iniziativa teatrale che si rispetti comincia in uno scantinato di un circolo PD (ai miei tempi DS). In altre parole sottoterra, cioè il luogo ideale per congiurati, salami, vino e morti. Ecco, chi comincia a fare teatro è una polpetta di tutto questo. Una poltiglia umana. Tra muffa e intonaci scrostati, tra palline di veleno per topi, pavimenti in cemento e scarsa illuminazione, tutti i teatranti del mondo muovono i primi passi. Sognano Amleto e Desdemona. Si trafiggono con pugnali finti. Si arrampicano su muri immaginari. Muggiscono, ragliano, fanno cucù per scaldare la voce. Cercano di esprimere quello spicchio di sè che nessuno, lassù alla luce dei vivi, nella banalità disarmante del disimpegno consumistico, vuole davvero. Il teatro – si sappia - accoglie tutti, in particolare gli infelici. Nel debole chiarore di una lampadina da 10 w, intravedo un cerchio di seggiole vuote. Un vago odore di piscio nell’aria. E poi, a confondersi cogli angoli bui, eccoli. Come viscidi insetti dell’umidità, solo che tossiscono, si stropicciano visi, spulciano il cappotto. Figure esitanti, curve, che ronzano angosciate. I miei nuovi compagni di corso, ovvero segretarie cinquantenni senza marito, chirughi in pensione, qualche adolescente troppo timido troppo complessato o troppo brutto per avere una vita sociale decente, casalinghe frustrate, un handicappato, una mummia in tuta nera, uno psicotico con barba e occhi di fuoco, diversi over trenta in cerca d’amore, una donna col culo gigantesco in fusò viola, un uomo inquietante cogli occhiali da sole, e infine un onestissimo emulatore di Marlon Brando e/o James Dean (io). Nel silenzio sepolcrale dello scantinato, una voce flebilissima ci fa voltare - Ci siamo tutti? - È un uomo smunto, con un orrido riporto arancione a coprirgli la calvizia, che indugia sulla porta. Nessuno risponde. L’uomo, a sua volta, tossisce e si spulcia il cappotto. Poi ripete la domanda, ma niente è troppo timido, e a metà del seconda sillaba ha uno scatto di nervi. Mi chiamo Ugo, dice. Anzi, pare ce lo stia chiedendo. Mi chiamo Ugo, chiede. Silenzio. Mia madre sta per arrivare, dice (forse ce lo chiede). Stella Adler, dice. NO, GEA SANDRI! HA DETTO GEA SANDRI!
Poi da in cima alle scale, un rumore, un portone che si apre e chiude. Schiocchi di tacchi sui gradini. È lei, Stella Adler! Gli insetti subito trasaliscono, zampettano, intasano l’ingresso, si ammassano gli uni sugli altri. Io, agitatissimo, rovisto tra le mie espressioni facciali quella più simile a Marlon Brando. Le provo tutte, in pochi secondi, tipo epilettico. Poi infilo la lingua tra incisivi inferiori e labbra, per aumentare il volume della mandibola. Eccola, trovata. Marlon Brando! Ma di colpo una voce interiore mi sussurra che assomiglio a una cazzo di scimmia - UN CAZZO DI BABBUINO!, mi precisa gentilmente la voce interiore - Sì, ma adesso che faccio? CHE FACCIO? E già la sento parlare, la mia Stella. Musica celestiale. Dizione perfetta, chiara, dolcissima. Gli insetti, ovvero i compagni di corso, sembrano in preda al deliquio. Agitano le mani, sorridono, tutti impazziti manco fosse entrata la Madonna di Medjugorie sull’asinello volante. Io, abbandonata ogni esitazione, nella mia totale nudità esistenziale, mi getto nel viscidume e sgomito, pesto piedi, - via, schifosi! – per vederla e toccarla la mia STELLA ADLER!, e non capisco cosa dica, non so, forse sta dispensando il Verbo del Metodo Stanislavski? (sebbene, nell’opuscolo informativo ci fosse scritto che Gea Sandri ha lavorato esclusivamente come annunciatrice radio RAI), ma ora intravedo i suoi lunghissimi capelli rossi che le scendono fino in fondo alle spalle. La lunga gonna nera, lo scialle nero. I piedini da geisha. Lei così esile, minuta, eppure forte, che emana un’energia, un’aura, e intanto mulino calci – via, scarafaggi! - e ancora non vedo il viso santissimo, è girata di schiena la mia STELLA ADLER, dice qualcosa a Ugo, il figlio col riporto arancione che pare le dica “mi chiamo Ugo?”, e le sfioro una spalla...

GEA E’ UN TESCHIO!!!!

Ovvero il teschio di una babbiona di cento anni, imparruccata da capelli di nylon rossissimi, che mi fissa cogli occhi iniettati di sangue (o cataratta). “Verrà la morte, e avrà i tuoi occhi.”, mi sussurra la voce interiore. – No, Pavese, No! No! - Ora il teschio mulina le pupille qua e là. Tacciono tutti, in attesa dell’oracolo. Io provo a retrocedere, ma la cicciona coi fusò viola mi si para davanti. Intanto il teschio ha uno strano agitarsi in bocca, come stesse raccogliendo un grumo di saliva solforica per sputarmi in faccia. - No! No! No! – e di colpo mi sorride come potrebbe sorridere un teschio che è riuscito a ricollocare la dentiera in sede.
Ciao, mi dice in dizione perfetta, e mi porge la mano. Io, tremante, gliela stringo, e nella presa percepisco le sue ossa che si spezzano, una a una, come certe patatine a sigaretta. C-i-a-o, dico.
È lei. La mia Stella Adler.





     

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